
‘La debolezza è la nostra potenza’. Con queste parole, Caterina Notte apre un dialogo che mette in luce il potere rivoluzionario della vulnerabilità femminile. Attraverso l’arte, l’artista molisana esplora i temi della fragilità, delle relazioni umane e della libertà, invitando a riconoscere il dolore come primo passo verso la trasformazione.
Nata a Isernia nel 1973, Caterina Notte vive oggi tra la Sardegna e Monaco di Baviera. Artista multimediale, si esprime attraverso fotografia, video, performance e scrittura, indagando la fragilità della condizione umana e le dinamiche distorte delle relazioni interpersonali. Il suo percorso artistico ha inizio con una ricerca sul proprio corpo, scandita dall’uso innovativo di tecnologie digitali . Oggi, il suo lavoro è noto a livello internazionale, con esposizioni in città come Roma, New York, Shanghai e Montreal.
Durante un recente incontro organizzato a Olbia dall’associazione Prospettiva Donna, Caterina Notte ha riflettuto sul ruolo dell’arte come strumento di cambiamento sociale. Attraverso il linguaggio visivo e la partecipazione collettiva, l’artista ha invitato a riconoscere il dolore e la debolezza come punti di partenza per una nuova forza.
Il tuo lavoro spesso esplora la fragilità femminile e la condizione delle donne. Come vedi il ruolo dell’arte nel contrasto alla violenza di genere e nel supporto alle donne vittime di abusi?
L’arte è sempre stata per me innanzitutto uno strumento di denuncia, e la forza visiva ed estetica delle immagini è molto potente e in grado di far riflettere profondamente. Ma c’è da dire che avvicinarsi all’arte non è semplice e ancora oggi spesso viene vista come una “questione elitaria”. Per questo credo che i progetti più interessanti siano quelli che non si limitino solo all’estetica ma che abbiano anche un forte impatto sociale e performativo, che riescano a coinvolgere un pubblico che solitamente è lontano dai musei e dalle gallerie d’arte. Trovare il sostegno di associazioni e istituzioni che lottano in prima linea come Prospettiva Donna per esempio, rende certamente la veicolazione del messaggio molto più efficace e capillare.

Nel tuo progetto ‘Predator‘, hai lavorato con bambine fasciate da garze, simbolo di vulnerabilità ma anche di protezione. Cosa ti ha ispirata a utilizzare questo linguaggio visivo, e come pensi che possa risuonare in un contesto come quello di oggi, dove la violenza contro le donne è ancora un problema drammaticamente attuale?
Le garze arrivano dalla mia storia, dal Molise, dove io sono nata. I bambini venivano fasciati alla nascita con delle lunghe garze bianche, nella convinzione di dare la corretta forma alla colonna vertebrale. Da lì è nata la mia volontà di continuare a proteggere il corpo con delle garze che non coprano ferite o tumefazioni bensì un dolore più profondo, quello della perdita della propria libertà. Allora quando guardi una mia foto e guardi il volto di una bambina garzata, forse comincerai a chiederti di quale dolore stiamo parlando, ed è in quel momento che la storia della nostra piccola rivoluzione avrà inizio.
Una performance di questo tipo, che coinvolga bambine, ragazze e donne di qualsiasi età è qualcosa che viaggia su un confine molto sottile tra la paura di prenderne parte e il desiderio di prendere in mano il proprio corpo disinteressandosi per la prima volta dell’osservazione e del giudizio altrui. Credo che il progetto Predator, proprio per questo, sia accolto con entusiasmo, curiosità e empatia.
Tu hai dichiarato che l’arte può lasciare ‘solchi’ nella realtà. In che modo credi che il tuo lavoro possa contribuire a generare un cambiamento culturale e a sensibilizzare la società sul tema della violenza contro le donne?
Sì, esatto, la responsabilità di un’artista è lasciare nella realtà una traccia che altre persone possano seguire più facilmente. Come artista visiva non posso che affidarmi a questo tentativo, non posso fare altro che continuare a scavare in modo che altre bambine e donne inizino a lasciarsi coinvolgere. Intendo portare avanti la mia resistenza, che è stata già di altri prima di me, e chissà che passo dopo passo, immagine dopo immagine, performance dopo performance, qualcosa non cambi nella piccola realtà anche solo di qualcuna di noi.
La mia azione si produce ed avviene a livelli diversi, attraverso la fotografia, il video, la performance, il silenzio, le parole, i libri… credo in questo modo di avere maggiori possibilità di sensibilizzare un pubblico eterogeneo spesso anche distante dal linguaggio artistico.
Come artista multimediale, tu utilizzi diversi mezzi espressivi (fotografia, installazioni sonore, performance). Qual è, secondo te, il linguaggio artistico più efficace per raggiungere il pubblico e far riflettere sul tema della violenza di genere?
Beh secondo me la fotografia è uno strumento molto efficace, tutti oggi sono vicini a questo mezzo, tutti hanno un device con cui riprendersi, e la performance, che d’altra parte richiede una connessione con il corpo fisico, è un’azione molto coinvolgente e a volte spiazzante che può generare curiosità e timore. Penso perciò che la performance coadiuvata dalla fotografia sia in grado di avvicinare un pubblico sempre più vasto, soprattutto quello fatto di donne che amano osservarsi e lasciarsi osservare. Quale mezzo visivo migliore per creare un’esperienza condivisa e collettiva?

Prospettiva Donna si impegna a offrire protezione e dignità alle donne vittime di violenza, attraverso case rifugio e centri antiviolenza. Cosa provi nel vedere il tuo lavoro inserito in un contesto così concreto e operativo, che affronta quotidianamente queste tematiche?
Per me è un grande risultato, che legittima la mia ricerca iniziata più di venti anni fa. Essere invitata da Prospettiva Donna e parlare al fianco di donne impegnate in una lotta quotidiana e reale, è per me un grande onore. Mi sento ancora più responsabilmente chiamata in causa e spinta a creare una sensibilizzazione e un dialogo profondo che passi attraverso l’arte e l’esperienza fisica di condivisione. Tutto così assume un senso più grande.
L’associazione Prospettiva Donna lavora anche con bambini e adolescenti esposti alla violenza assistita. Nel tuo lavoro, tu hai collaborato con bambine e ragazze. Qual è il messaggio che vorresti trasmettere a questi giovani, che spesso subiscono indirettamente le conseguenze della violenza domestica?
Il mio messaggio è uno solo: il riconoscimento umile del nostro dolore e della nostra debolezza causata dalla perdita della nostra libertà originaria. Il punto di svolta è confessare a se stessi prima di tutto quanto c’è di doloroso dentro di noi. Sicuramente ciò che vorrei trasmettere alle ragazze e alle donne che subiscono violenza soprattutto quella indiretta è di prendere quanto prima consapevolezza di questo dolore e di distanziarsene il prima possibile, verbalizzandolo, traducendolo in parole per esempio di aiuto.
Quando lavori con donne e bambine, tu hai detto di sentirti responsabile nei loro confronti. In che modo gestisci questo senso di responsabilità e quali sono state le reazioni delle persone coinvolte nei tuoi progetti?
Sì, è vero, mi sento molto responsabile nei confronti di chiunque partecipi al mio progetto, chiaramente soprattutto verso le bambine perché sono quelle più indifese, ma il mio obiettivo è uno solo, salvare una bambina oggi, per salvare una donna domani. E’ un grande obiettivo, ne sono consapevole e non sarà sempre facile raggiungerlo, ma tornando alle tracce e ai solchi credo che le bambine che collaborino al mio progetto Predator non potranno cancellare facilmente questa esperienza e chissà, un giorno quando saranno più grandi, ricorderanno e avranno forse un’arma in più. Le bambine, lasciandosi garzare, a volte inconsapevolmente data la loro piccola età, provano però subito la sensazione di sentirsi protette dalle garze come avessero uno scudo a proteggerle. Credo che questo senso di protezione resti indelebile. Lo cercheranno ancora nella loro vita. Ne sono sicura.
Il tuo lavoro spesso mette in luce la tensione tra fragilità e forza. Come pensi che questa dicotomia possa aiutare le donne a ritrovare fiducia in se stesse dopo aver subito violenza?
E’ un tema scottante e molto difficile e chiaramente come artista visiva non posso sicuramente intervenire sul campo come fa per esempio Prospettiva Donna, posso però condividere questa informazione: la debolezza è la nostra potenza. Nel momento in cui ci decidiamo ad affrontare e a riconoscere il nostro dolore e la nostra debolezza, anche facendoci aiutare, inevitabilmente saremo già ad un livello più alto, fatto di consapevolezza, forza e resistenza. E’ una scelta che ci trasforma. La fragilità diventa un punto di partenza per una forza che non è solo fisica, ma anche mentale ed emotiva.
Cosa pensi del ruolo dell’arte contemporanea nel promuovere una cultura di parità e rispetto, soprattutto in un momento storico in cui la violenza contro le donne continua a essere un fenomeno diffuso?
La cultura stessa è una vera arma contro la violenza e l’arte contemporanea deve continuare il suo percorso senza deviazioni puramente estetiche. La formazione individuale e culturale e l’informazione continua permettono di rivedere le proprie idee, i propri pregiudizi o convinzioni e di osservare se stessi magari sotto un’altra luce e allora una donna o una ragazza che subisce violenza di qualsiasi genere può forse riscrivere la propria storia partendo da una nuova consapevolezza. Per questo il ruolo dell’arte e delle istituzioni è cruciale nel processo di informazione culturale e di educazione per denunciare le disuguaglianze di genere e stimolare cambiamenti culturali. Rendere visibile l’invisibile, portare allaluce storie, esperienze che spesso sono ignorate, taciute o minimizzate, questo per me completa l’esperienza artistica.
In un mondo sempre più dominato dai social media e dalla comunicazione digitale, come vedi l’evoluzione del linguaggio artistico nel trattare temi delicati come la violenza di genere?
I social media, purtroppo, hanno permesso la nascita e poi veicolato e amplificato l’uso di un linguaggio molto violento ma allo stesso tempo hanno dato spazio a nuove forme di attivismo e sensibilizzazione. La velocità e la diffusione delle informazioni sui social hanno reso possibile una consapevolezza globale forse più rapida riguardo alla violenza di genere. In questo contesto, l’evoluzione del linguaggio artistico non è solo una risposta estetica, ma anche un’opportunità per creare nuovi spazi di condivisione. Io stessa ho creato progetti performativi sui social, esiste indubbiamente una platea maggiore e più eterogenea.

Il tuo percorso artistico è nato da una percezione di fragilità personale. Come hai trasformato questa esperienza in uno strumento per dare voce alle donne e denunciare le ingiustizie sociali?
Quando mi sono accorta del dolore che si alimentava dentro di me, ho percepito subito un senso di rigetto e di ribellione. Ho iniziato un lungo percorso di resistenza per annullare quella debolezza che sentivo dentro. E’ questa ribellione che mi piacerebbe tirare fuori dalle bambine e dalle donne che partecipano al mio progetto; decidere di lasciarsi garzare e poi fotografare è una scelta trasformativa, sarà impossibile tornare indietro.
Qual è il messaggio principale che vorresti lasciare al pubblico di Olbia, in occasione di questo evento organizzato da Prospettiva Donna?
È urgente far cadere l’osservazione, capovolgere il nostro ruolo da osservato a osservatore, interrompendo il ciclo che ci tiene costantemente prigioniere. E lo possiamo fare solo condividendo il nostro dolore dopo averlo accettato, scegliendo di resistere per continuare la nostra esistenza. Verbalizzare e convertire la propria fragilità, non averne paura ma osservarla, è l’unico modo per non restare una vittima e per accedere nuovamente a quella immensa libertà che ci appartiene dalla nascita.
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